Magnus e la sagoma nera
Riproponiamo un testo liceale di Monica sul linguaggio del medium fumetto.
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Se c’è un principe della sagoma nera nella storia dei fumetti, se c’è un campione della sintesi di linguaggio iconico a strisce, se c’è un maestro capace di fondere insieme la brutale essenzialità del bianco nero con la poesia evocativa del racconto, se c’è, o meglio c’era, un disegnatore siffatto allora non può che chiamarsi Roberto Raviola, detto Magnus. I vecchi disegnatori che l’hanno conosciuto e che gli sono stati contemporanei, ma soprattutto che hanno interagito con la sua intensa vita produttiva ci raccontano quale è stata la logica genesi di un liguaggio artistico, di una grammatica che ha fatto anche proseliti, praticamente la fretta. La necessità produttiva, il tempo sempre più stretto spesso ha portato molti stanchi disegnatori a cedere buona parte della propria capacità, sacrificando la qualità e avvicinandoli molto al rischio del graffito, cioè del segno che va oltre lo sporco, che si perde nel mare della mancanza di senso. Per un raffinato artista come Magnus le maglie strette di tale necessità non lo hanno sconfitto ma sono state pretesto per la virtù di un salto di qualità espressivo. Siamo nel periodo arcaico ma il termine non appaia come una diminutio rispetto al più popolare e ufficialmente riconosciuto magnus classico, rispetto al quale ritroviamo la piena maturità del controllo della forma plastica e privo della successiva espansione manieristica.
Il percorso di eliminazione del superfluo, sia attraverso l’abilità del taglio e della zoomata sul focus dinamico della scena, sia con la sistematizzazione espressiva dei dati naturalistici e perfino anatomici ( una per tutte la geniale semplificazione dell’allineamento falangeo), ha trovato il felice traguardo stilemico nel l’invenzione della “sagoma magnusiana”. E’ stilema e dato di linguaggio perché non rientra nella casualità contingenziale dei controluce e degli abbagli ambientali ma archetipo di struttura narrativa.
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