the Xtina’s comic strips week Day 3
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Mascherine chirurgiche oppure FFP1,FFP2, FFP3 con o senza valvola
Le mascherine chirurgiche sono quelle che rispettano la norma UNI EN 14683:2019 + AC:2019 che definisce “la costruzione, la progettazione, i requisiti di prestazione e i metodi di prova per le maschere facciali a uso medico destinate a limitare la trasmissione di agenti infettivi da parte del personale ai pazientidurante le procedure chirurgiche e altre attività mediche con requisiti simili”.
Nello specifico, “il principale utilizzo previsto delle maschere facciali ad uso medico è quello di proteggere il paziente dagli agenti infettivi e, inoltre, in determinate circostanze, di proteggere chi le indossa da spruzzi di liquidi potenzialmente contaminati. Possono anche essere destinate ad essere indossate dai pazienti e da altre persone per ridurre il rischio di diffusione delle infezioni, in particolare in situazioni epidemiche o pandemiche”. La norma precisa inoltre che “una maschera facciale ad uso medico con una barriera microbica appropriata può anche essere efficace nel ridurre l’emissione di agenti infettivi da naso e dalla bocca di un portatore asintomatico o di un paziente con sintomi clinici”.
Per poter parlare di mascherine di protezione delle vie respiratorie bisogna guardare ad altre norme, in particolare alla UNI EN 149:2009 di recepimento della normativa europea EN 149:2001 + A1:2009 che definisce “i requisiti minimi per le semi-maschere filtranti antipolvere utilizzate come dispositivi di protezione delle vie respiratorie” prevedendo tre classi di protezione in base all’efficienza filtrante, vale a dire FFP1, FFP2 e FFP3. Le mascherine conformi a questa normativa sono costituite interamente o prevalentemente di materiale filtrante, coprono naso, bocca e possibilmente anche il mento (semi-maschera), possono avere una o più valvole di inspirazione e/o espirazione e sono progettate per la protezione sia da polveri sottili (generate dalla frantumazione di solidi), sia da nebbie a base acquosa e nebbie a base organica (aerosol liquidi) e fumi (liquidi vaporizzati).
Le tre classi di protezione FFP (la sigla sta per filtering face piece, in italiano “facciale filtrante delle particelle”) differiscono tra loro in funzione dell’efficacia filtrante (limite di penetrazione del filtro con un flusso d’aria di 95 L/min) e della perdita totale verso l’interno (TIL, Total Inward Leakage, la % di aria in ingresso nell’area di respirazione e quindi anche di inquinanti ambientali o agenti potenzialmente patogeni come il Sars-Cov-2).
Mascherine di classe FFP1
Le mascherine di classe FFP1 assicurano un primo livello di protezione delle vie respiratorie in ambienti polverosi e che contengono particelle in sospensione. Si tratta quindi di maschere semi-facciali antipolvere comunemente utilizzate in diversi settori (industria tessile, alimentare, mineraria, siderurgica, edilizia e costruzioni, del legno, tranne legno duro) in grado di proteggere le vie respiratorie da particelle solide e liquide non volatili quando la loro concentrazione non supera 4,5 volte il valore limite* di soglia previsto dalla normativa.
Hanno una capacità filtrante di almeno l’80% delle particelle sospese nell’aria e una perdita verso l’interno minore del 22%. Non è idonea per la protezione da agenti patogeni che si trasmettono per via aerea.
Mascherine di classe FFP2
La mascherine FFP2 offrono un secondo livello di protezione delle vie respiratore e sono generalmente utilizzate nell’industria tessile, mineraria, farmaceutica, siderurgica, industrie agricole e ortofrutticole, della carrozzeria automobilistica, del legno (tranne il legno duro), nei laboratori di analisi e anche dagli operatori sanitari o personale esposto a rischi basso-moderati.
Sono in grado di proteggere le vie respiratorie da polveri, nebbie e fumi di particelle con un livello di tossicità compreso tra il basso e medio la cui concertazione arriva fino a 12 volte il valore limite* previsto dalla normativa. Hanno una capacità filtrante di almeno il 94% delle particelle sospese nell’aria e una perdita verso l’interno minore dell’8%.
Mascherine di classe FFP3
Le mascherine di classe FFP3 sono un dispositivo di protezione delle vie aeree comunemente utilizzato nell’industria tessile, mineraria, farmaceutica, dell’edilizia e costruzioni, siderurgica, trattamento dei rifiuti, nei laboratori di analisi e anche dagli operatori sanitari che assistono individui infetti o potenzialmente infetti e personale di ricerca esposto ad alto rischio.
Sono in grado di proteggere le vie respiratorie da polveri, nebbie e fumi di particelle tossiche (amianto, nichel, piombo, platino, rodio, uranio, pollini, spore e virus) con una concentrazione fino a 50 volte il valore limite* previsto dalla normativa. Hanno una capacità filtrante di almeno il 99% delle particelle sospese nell’aria e una perdita verso l’interno minore dell’2%.
Valore limite di soglia* (TLV, la concentrazione massima delle sostanze aerodisperse alla quale si ritiene si possa essere esposti senza effetti nocivi per la salute)
A cosa serve la valvola?
Le mascherine di protezione FFP1, FFP2 e FFP3 possono essere dotate di valvole: la loro presenza non ha alcun effetto sulla capacità filtrante del dispositivo ma assicura un comfort maggiore quando la mascherina è indossata per molto tempo. In particolare, la valvola di espirazione permette all’aria calda di fuoriuscire dal dispositivo, riducendo l’umidità che si forma al suo interno, evitando così la formazione di condensa. Questo previene inoltre l’appannamento degli occhiali e facilità la respirazione. Attenzione però, perché in questo modo anche le particelle virali possono fuoriuscire: l’utilizzo di mascherine con valvola non è infatti consigliato se si pensa di essere positivi.
Francis Bacon (Dublino, 28 ottobre 1909 – Madrid, 28 aprile 1992)
I suoi genitori erano Eddy Bacon, quarant’anni, capitano in pensione che intraprese un’attività di allenatore equestre, e Winnie Bacon, ventisei anni. Il fratello Harley aveva quattro anni. La badante di Francis era Jessie Lightfoot, trentanove anni. Bacon era un bambino molto ammalato, con asma e violente allergie verso cani e cavalli. Era molto timido come bambino ed adorava vestirsi e discutere di vestiti.
Gli piaceva molto vestirsi come una ragazza, e la sua evidente omosessualità faceva infuriare suo padre. Inseguito si è saputo che suo padre lo puniva per questo motivo (anche con vere e proprie frustate) e si pensa che se è vero fu questo a determinare il suo masochismo. Ad un party in costume nella prima casa della famiglia, a Suffolk, Francis indossò un abito a rilievo, rossetto, tacchi alti tenendo una lunga sigaretta con bocchino. Alla fine di quello stesso anno suo padre lo cacciò di casa perché lo sorprese mentre si provava di fronte a uno specchio la biancheria di sua madre. Bacon si trasferì a Londra nel 1925; fu poi a Berlino, dove conobbe il realismo di G. Grosz, O. Dix e M. Beckmann. Dopo esperienze varie in pittura con influenze di “Max Ernst” e “Pablo Picasso” e nell’arredamento nello spirito del “Bauhaus” tornò a Londra, (nell’autunno in l’inverno nel 1926 a Londra, aiutato dalle tre sterline che sua madre gli mandava ogni settimana, vivendo seguendo i propri istinti e leggendo Nietzsche. Per autare il proprio reddito, per un po’ provò a fare il collaboratore domestico ma, anche se gli piaceva cucinare, cominciò ad annoiarsi e si licenziò. Lavorò poi come telefonista in un negozio di abiti femminili all’ingrosso in Poland Street a Soho. Fu licenziato dopo aver scritto una lettera minatoria al suo datore di lavoro. Sua cugina Diane Watson suggerì che il diciasettenne Francis prendesse lezioni di disegno alla scuola d’arte San Martin.
Francis scoprì che era attraente, e che era molto carino per alcune persone e pensò subito di trarne vantaggio, concedendosi a uomini ricchi. Uno di questi uomini era un ex compagno d’arme di suo padre, nonché un brigliatore di cavalli, di nome Harcourt-Smith. Più avanti Francis sostenne che suo padre avesse chiesto al suo amico di tenerlo in pugno e di farlo diventare un vero uomo. Senza dubbio, suo padre era a conoscenza della fama di uomo virile del suo amico ma non dei suoi gusti sessuali) cominciò a dipingere nel 1929-30, svolgendo attività di decoratore e illustratore.
All’inizio della Primavera del 1927 Francis fu portato da Harcourt-Smith a Berlino che allora faceva parte della Repubblica di Weimar. Fu qui che Francis vide il capolavoro di Fritz Lang “Metropolis”. Francis trascorse due mesi a Berlino. Dopo più o meno un mese, Harcourt-Smith lo lasciò. “Si è stancato presto di me, e certamente ora sarà con una donna”. Fu così che dopo poco tempo decise di trasferirsi a Parigi.
L’estate del 1927 Francis andò ad una mostra di 106 opere di Picasso nella Galleria Paul Rosenberg a Parigi, cosa che lo ispirò a disegnare e dipingere. Prese il treno circa cinque volte a settimana per visitare la mostra e spesso tornava con disegni ed acquerelli d’ispirazione cubista.
Francis tornò a Londra nel tardo 1928 e cominciò a lavorare come interior designer. Prese un garage e lo convertì in studio a South Kensington e condivise il piano superiore con Eric Alden, che fu il suo primo collezionista. Nel 1929 Jessie Lightfoot, la badante di Francis, si unì a loro. Nella prima edizione del Cahiers d’Art del 1929, Francis vide le figure biomorfiche di Picasso. Francis divenne amico di Geoffrey Gilbey, un corrispondente del Daily Express e per qualche tempo lavorò come suo segretario.
Il nuovo corso della sua pittura si aprì nel 1944 con i “Tre studi di figure per la base di una crocifissione” (Londra, Tate Gallery) che sconcertarono il pubblico con le loro inquietanti, mostruose figure.
Francis passò un anno e mezzo a Parigi. All’apertura di un’esibizione, incontrò Yvonne Bocquentin, pianista e cantante. Essendo a conoscenza del suo bisogno di imparare la lingua francese, Francis visse per tre mesi con Madame Bocquentin e la sua famiglia nella loro casa presso Chantilly. Al Château de Chantilly (al museo Condè), vide La strage degli innocenti di Nicolas Poussin.
Francis scrisse un suo annuncio sul Times come un “gentleman’s companion”. Fra le varie risposte, attentamente controllate da Jessie Lightfoot, vi era quella di un anziano signore cugino di Douglas Cooper (Cooper aveva la più bella collezione di arte moderna di tutta l’Inghilterra).
Il signore, avendo pagato Francis per i suoi servizi, gli trovò un lavoro part-time come operatore telefonico in un club londinese, e lo aiutò a promuoverlo come designer d’interni a suo cugino Cooper (il quale gli commissionò una volta una scrivania in color grigio-navale).
Nel 1929 Francis conobbe Eric Hall al Bath Club mentre stava cambiando un telefono. Hall (il quale era direttore generale della Peter Jones) fu il suo amante e protettore.
La prima esposizione al Queensberry Mews, nell’inverno del 1929, era fatta di stracci e mobilia di Bacon (Eric Hall comprò uno straccio) ma pare che vi fossero anche Painted screen (c. 1929 – 1930) e Watercolour (1929), entrambi comprati da Eric Alden. Watercolour (“Acquarello”), il suo dipinto più datato sopravvissuto, sembra sia evoluto dai suoi disegni di stracci, che a loro volta furono influenzati dai dipinti e gli arazzi di Jean Lurçat.
Sydney Butler, figlia di Samuel Courtauld e moglie di Rab Butler, commissionò un tavolo di vetro e acciaio ed una serie di sgabelli per il salotto della sua casa di Smith Square.
Lo studio di Bacon di Queensberry Mews, comparve nel numero dell’Agosto 1930 di The Studio, con un articolo di due pagine intitolato “The 1930 Look in British Decoration”, che mostrava i suoi lavori, inclusi un grande specchio tondo, stracci e mobilia in acciaio tubolare e vetro influenzata dallo Stile Internazionale, Marcel Breuer, Le Corbusier / Charlotte Perriand e Eileen Gray.
Il lavoro Bacon era Espressionista nello stile e le sue forme umane storte erano sconvolgenti. Ha sviluppato il suo stile personale e tema tenebroso durante gli anni 50 L’opera di Bacon ha certamente una linea di continuità con quella di Van Gogh e Munch e ancor prima con quella di Grunewald, ma le figura umane dell’artista inglese, sempre al centro dei suoi dipinti, non sembrano distorte e deformate da drammi esistenziali e interiori, ma dall’azione coercitiva e torturatrice dell’ambiente al limite della mutazione antropologica e genetica.
In seguito Bacon approfondì la sua analisi, spietata sino all’atrocità, della condizione umana “Painting” 1946, Museum of Modern , New York. «Non c’è tensione in un quadro», scrisse nel 1955, «se non c’è lotta con l’oggetto». E da questa lotta l’oggetto, l’immagine dell’uomo, escono distorti e sfigurati.
I personaggi dei suoi quadri, esemplari le rielaborazioni del ritratto di “Papa Innocenzo X di Velàzquez” che si trovano a New York, W. Burden Collection e a Londra, Marlborough Fine Art, rispettivamente del 1953 e del 1962, ci appaiono come attraverso un vetro deformante e al tempo stesso, lucidamente osservati con spirito da voyeur.
«Vorrei che i miei quadri apparissero come se un essere umano fosse passato su di essi… lasciando una scia di umana presenza e tracce di memoria di eventi passati»; queste parole possono forse spiegare perché Bacon si serva spesso di immagini preesistenti rielaborandole: fotografie anonime, gli album fotografici di Muybridge, fotogrammi da film di Bufiuel, Eisenstein, Stroheim, immagini mediche di malattie della bocca, il citato “Innocenzo X di Velàzquez” il “Ritratto di V. Van Gogh”.
L’opera di Bacon, le cui radici culturali sono state individuate, fra l’altro, nell’estetica settecentesca del sublime, è caratterizzata da una violenta carica “Espressionistica” formalmente derivata da M. Griinewald “Vincent Van Gogh” “Edvard Munch”. Essa ha esercitato un influsso di grande rilievo sui pittori delle generazioni successive, soprattutto su quelli operanti nell’ambito della cosiddetta «nuova figurazione». Una delle opere maggiormente conosciuta di Bacon è il “Doppio ritratto di Lucian Freud e di Frank Aurbach” eseguito nel 1964 ed ora è esposto nel Marlborough Gallery di Londra. Bacon tornò in Germania nel 1930 e partecipò alla Oberammergau Passion Play.
Bacon non presenta le cause delle deformazioni che intende già conosciute e sofferte da tutti, ne illustra con fredda e spietata lucidità gli effetti, offrendo alla vista la mostruosità di corpi da cui sembra sia stata estratta l’anima, presi da atroci e sfiguranti convulsioni. E la condizione di queste figure appare senza speranza, senza via di uscita, come un preinferno terreno; è una prigionia di terrore, solitudine e sofferenza forse mai espressa con tanta definitiva convinzione.
L’opera di Bacon vive però di una contraddizione derivata dall’adozione di una tecnica pittorica di altissima qualità formale, che lascia trasparire la voluttà insieme sadica e masochistica dell’uso di un colore capace di rendere tanto strazio, dei viola acidi, dei rosa taglienti, degli aranci brillanti mescolati a tinte di un magma scuro e marcescente. Una tecnica elevata che traspare anche dalla calcolata composizione di forme, che sono sospese in uno spazio da cui sembra essere stata tolta l’aria, incarnate nella tensione boccheggiante e convulsa di corpi che si contorcono e rattrappiscono o si sfaldano confondendo i loro confini con lo spazio vuoto che li sostiene. In questo senso l’opera di Bacon è un’ultima espressione dell’estetica del sublime che pone la lucida constatazione della realtà a confronto con le più alte espressioni ideali, benché frustrate, dell’anima.
Monna Lisa
La Gioconda, nota anche come Monna Lisa, è un dipinto a olio su tavola di legno di pioppo realizzato da Leonardo da Vinci, (77×53 cm e 13 mm di spessore), databile al 1503-1504 circa e conservato nel Museo del Louvre di Parigi.
Opera iconica ed enigmatica della pittura mondiale, si tratta sicuramente del ritratto più celebre della storia nonché di una delle opere d’arte più note in assoluto. Il sorriso impercettibile del soggetto, col suo alone di mistero, ha ispirato tantissime pagine di critica, letteratura, opere di immaginazione e persino studi psicoanalitici; sfuggente, ironica e sensuale, la Monna Lisa è stata di volta in volta amata e idolatrata, ma anche derisa o aggredita.
La Gioconda rappresenta una meta obbligata per migliaia di persone al giorno, tanto che nella grande sala in cui è esposta un cordone deve tenere a debita distanza i visitatori; nella lunga storia del dipinto non sono infatti mancati i tentativi di vandalismo, nonché un furto rocambolesco che in un certo senso ne ha alimentato la leggenda.